
di Maurizio Di Palma
La c.d. autonomia differenziata rompe l’unità nazionale, sancendo la legittimità delle diseguaglianze esistenti. Meglio una camera delle regioni.
Con la c.d. autonomia differenziata la maggioranza di governo, dopo anni, ha finalmente realizzato i disegni secessionisti della Lega. La riforma prevede che ogni regione possa negoziare con il governo l’attribuzione di una serie di materie oggi di competenza dello Stato centrale, con conseguente assegnazione di mezzi e risorse.
La riforma prevede anche che debbano essere previsti dei livelli essenziali delle prestazioni (c.d. Lep) che nel testo originario devevano essere individuati con un atto del Presidente del Consiglio.
Di recente la Corte Costituzionale ha censurato l’attribuzione di questa competenza al solo Presidente, ma è l’impianto della legge a non essere condivisibile.
Un simile sistema in cui ciascuno va Roma e torna a casa con più o meno competenze di altri non viene adottato da nessun paese federale perchè oltre ad essere disordinato, compromette l’unità del Paese.
Attribuire ad ogni regione delle competenze diverse significa assumere come regola generale un sistema delle autonomie non uniforme con la conseguenza che lo Stato centrale in molti caso legifera, ma le norme adottate non valgono per tutti o non valgono per tutti allo stesso modo.
La fissazione per legge dei livelli essenziali delle prestazioni in ogni caso è la conferma che questo sistema inevitabilmente creerà delle disparità o comunque considererà normali quelle esistenti.
Il rimedio dei Lep verosimilmente non funzionerà dal momento che è davvero difficile misurare per legge quanta sanità e di che qualità spetterà a ciascun cittadino o quanta scuola e di che tipo.
Oltretutto affidare alle burocrazie e non ai diretti interessati la definizione delle attribuzioni e delle risorse significa far finta che il problema non esista.
L’aspetto più discutibile è comunque l’affermazione per legge di un principio di chiara ispirazione leghista per cui gli italiani non hanno diritto a pari prestazioni. Alcuni magari godranno di un’ottima sanità o un’ottima scuola, mentre altri dovranno contentarsi solo di un livello minimo di prestazioni.
La riforma, anche quando sarà rimaneggiata in base alle indicazioni della Corte Costituzionale, sancirà l’esistenza di un meccanismo istituzionale che l’ungi dall’incoraggiare il superamento delle diseguaglianze esistenti, ne sancirà la legittimità. E anzi, ne introdurrà di nuove, tutte perfettamente normali.
Tutti saremo italiani, ma alcuni saranno più italiani degli altri.
Per garantire un maggior spazio alle Regioni più sfortunate sarebbe il caso di trasformare il Senato in una camera delle regioni analoga a quella che c’è in Germania con consistenti poteri legislativi – non quella del tutto inutile che propose Renzi a suo tempo – e di introdurre il principio per cui la legge nazionale prevale sempre su quella regionale.
Con questo sistema di potrebbero conseguire due obiettivi.
Il primo sarebbe quello di evitare il frequente ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se una norma sia di competenza dello Stato o della Regione. Con l’approvazione da parte della seconda Camera la norma dello Stato diventerebbe legittima e prevarrebbe su quelle regionali.
Il secondo obiettivo sarebbe il riconoscimento di attribuire alle regioni una sorta di potere di veto su provvedimenti potenzialmente lesivi degli interessi e delle prerogative territoriali delle regioni.
Soprattutto le regioni meno fortunate avrebbero la possibilità di coordinarsi per controllare quanto lo Stato centrale decide e salvaguardare i territori di riferimento.
Insomma, il problema dei rapporti tra stato centrale e autonomie locali è di natura politica e deve essere risolto creando istituzioni che siano in grado di risolvere questi contrasti politicamente.
Altre soluzioni sono solo secessione.